L’illusione della filosofia nell’individuo di Jeanne Hersch

L’occidentale contemporaneo vive una condizione estremamente scomoda. Nel momento in cui scopre di avere una coscienza e inizia a porsi domande, si trova schiacciato tra gli estremi delle promesse dei suoi predecessori e la delusione di quelle stesse promesse. La paura lo porta a trovare rifugio in risposte estreme che semplificano la scelta, ma una reazione del genere, per quanto comprensibile, non può essere giustificabile. Le prime battute di una delle analisi sociologiche più note del secolo scorso, Avere o essere?, spiegano la situazione in maniera esemplare:

 

La Grande Promessa di Progresso Illimitato ha sorretto le speranze e la fede delle generazioni che si sono succedute a partire dall’inizio dell’era industriale. […] La trinità costituita da produzione illimitata, assoluta libertà e felicità senza restrizioni venne così a formare il nucleo di una nuova religione. […] L’imponenza della Grande Promessa, le stupende realizzazioni materiali e intellettuali dell’era industriale devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento (E. FROMM, Avere o essere?, trad. it. di F. Saba Sardi, Mondadori, Milano 1977, pp. 11-12.).  

Se una determinata evoluzione della tecnica, della scienza, del filosofare legati al nostro tempo non tracciano una strada diretta per portare ad espressione l’essenza dell’uomo, forse la soluzione non è rassegnarsi oppure prendere irrazionalmente le distanze, bensì seguire un più sconnesso percorso indiretto, che si confronta e lotta con ciò che incontra nel proprio tempo vissuto, fino a ritrovare la propria via.

L’esistenzialismo e il recupero del limite
Nell’età della sovrastimolazione serve innanzitutto rimettere un po’ in ordine per fare spazio, ricavare un vuoto e pensare l’essenza dell’uomo a partire proprio da ciò che non è. Per dirla in termini un po’ più filosofici, rispondere allo scientismo e al positivismo con la valorizzazione del limite, della rinuncia ad ogni infondata oggettività. Questo, seguendo il ragionamento di Abbagnano nella sua introduzione a L’illusione della filosofia, non per accettare fatalmente il naufragio dell’uomo, ma per recuperare il suo rapporto con l’essere e correrne il rischio fino a raggiungere se stessi («L’uomo non può ormai né imbarcarsi per un viaggio verso l’impossibile né rassegnarsi a un naufragio fatale. Non gli rimane che accettare, per quella che è, la sua condizione. Se il suo rapporto con l’essere non mette mai capo all’essere, egli deve riconoscere questa instabilità, assumerne su di sé il rischio, realizzare nel ritorno consapevole su se stesso il suo vero destino» – J. HERSCH, L’illusione della filosofia, trad. it. di F. Pivano, Einaudi, Torino 1942, p. 6.).

Se davvero il recupero della condizione vissuta e finita dell’uomo può essere la soluzione all’inevitabile disorientamento provocato da quella che, semplificando, potremmo definire la deriva scientista, l’esistenzialismo diventa la chiave di lettura migliore per sondare le possibilità offerte da tale soluzione. Come dimostra un rigoroso excursus di J. D. Robert, La vie de l’existentialisme en France, l’esistenzialismo è ormai diventato una risposta valida e condivisa ai problemi contemporanei in Europa e in tutto il mondo.

È mia convinzione che l’esistenzialismo raggiunga il proprio apice in Jeanne Hersch (1910-2000). Volendo riassumere in maniera brutale ma efficace la sua filosofia, si potrebbe affermare che il pensiero della ginevrina nasce dal rigore di Kant, dall’engagement di Jaspers, dalla spontaneità di Bergson e dalla libertà di Spinoza. Hersch incarna i principali tratti comuni all’esistenzialismo, unendoli a una particolare umiltà: presente al proprio tempo, come ama descriversi in Rischiarare l’oscuro, ha capito quanto è importante il confronto con la realtà in cui si vive e quanto la filosofia rimane legata, quasi in debito, con scienza e tecnica. Nella sua riflessione il rifiuto di una verità oggettiva non giustifica mai l’abbandono della ragione.

La libertà necessitante in Hersch
In che modo Jeanne Hersch può aiutare la riflessione sull’essenza dell’uomo? Non riuscendo qui a portare avanti un ragionamento esaustivo, mi limiterò a presentare in che modo L’illusione della filosofia apre la strada alla realizzazione dell’uomo liberandolo da ciò che non è e spiega qual è effettivamente la posta in gioco nella questione affrontata. In questo testo Hersch sostiene che dopo Kant, Kierkegaard, Nietzsche e Jaspers la filosofia non può più essere valutata per le conoscenze oggettive che apporta, in quanto è stato dimostrato che nessun pensiero può raggiungere la totalità. Da un punto di vista scientifico non ha più senso studiare sistemi del passato, come quelli greci, che risultano ormai ampiamente superati. Nonostante ciò, la filosofia non è ancora morta, anzi, risulta forse più necessaria che mai.

In ogni filosofare c’è un doppio movimento, a cui corrisponde un determinato senso: il senso esplicito è ciò che si cerca all’inizio della riflessione, una risposta universale alla base di tutto; il senso reale è invece qualcosa di inizialmente sconosciuto anche al filosofo, quel valore che si vuole perseguire e che ritorna in ogni momento, fino a diventare il nucleo che dona coerenza all’esistenza di qualcuno. Evidentemente non studiamo un pensatore per le conoscenze che ci offre, ma per l’esempio che ci dà con il suo impegno, perché l’unità del soggetto da esso raggiunta è la massima elevazione a cui l’uomo può aspirare e ciò che il lettore avverte di voler imparare a mimare per realizzare la propria esistenza.

Ma che cos’è l’unità del soggetto? È qui necessario spostare l’attenzione su Essere e forma. Riprendendo da dove Kant si è fermato, per la ginevrina l’uomo, muovendosi nel mondo, non può mai andare oltre il proprio punto di vista e cogliere qualcosa di oggettivo. Ogni volta che abbiamo a che fare con qualcosa, adottiamo un modo particolare per conoscere e così ognuno si crea la propria realtà. Il soggetto vede un oggetto e più prova a prenderlo più si accorge che esso è impenetrabile. Ogni presa esercitata cattura un aspetto particolare, genera un equivoco e un infinito numero di prese sullo stesso oggetto non restituirà mai l’oggetto in sé.

Jeanne Hersch

Risulta evidente che ogni singolo deve crearsi la propria specifica realtà, ma non è chiaro quali sono i principi attraverso cui si opta per una presa piuttosto che un’altra. Quando definisce la realtà umana come un crinale tra due abissi sconosciuti ((«La realtà nel senso umano è quindi limitata. È un crinale tra due abissi, posti e sconosciuti, l’io in sé e il non io in sé. È una linea di convergenza e di conflitto. L’uomo esiste soltanto là dove realizza se stesso inserendo la sua presa». – J. HERSCH, Essere e forma, trad. it. di S. Tarantino e R. Guccinelli, Mondadori, Milano, 2006, p. 13.)), Hersch presuppone la presenza di un vuoto, all’interno del quale l’uomo ha uno spazio di manovra per costruire la propria esistenza. Con Bergson, ci si muove sempre da qualcosa di poco definito a qualcosa di più definito ed esisterà sempre uno spazio in cui sistemare la propria scelta reale, perché questo vuoto corrisponde all’incrinatura della verità oggettiva.

Se l’uomo non può scegliere affidandosi a qualcosa di universalmente valido, non gli rimane che appellarsi alla propria libertà. Qui entra in gioco Spinoza, perché la libertà di cui si fa portavoce Hersch è la fioritura esistenziale di quella libertà che genera lo stesso sentimento di necessità provocato dalla dimostrazione geometrica. In Ordre, moral et liberté la ginevrina spiega rapidamente quali sono i diversi livelli di libertà e, partendo dalla non-determinazione fisica e dal libero arbitrio, arriva ad una libertà come capacità di lasciarsi impegnare da qualcosa finché, là dove libertà e necessità coincidono, ci si trova in una situazione in cui si deve scegliere tra la propria realizzazione e la tentazione, perché si avverte come l’Antigone di Sofocle che una semplice azione può determinare la propria essenza più profonda. Tornando a L’illusione filosofica, il filosofo nella sua ricerca trova un oggetto che non è ma merita di essere, cercando di esercitare su di esso prese diverse. Si costruisce così un’esistenza coerente e unitaria, che non può avere pretese di universalità ma che manifesta il se stesso del soggetto. Questo cammino verso l’autenticità è il valore della filosofia, il motivo per cui deve rimanere in vita e il modello che cerca il lettore quando si approccia ad essa.

Il senso dell’uomo tra oggettività e possibilità
Da questa stringata presentazione del modello proposto da Hersch si possono trarre le risposte ai quesiti inizialmente presentati. Tutto ruota intorno ad un’alternativa originaria, quella tra l’oggettività e la possibilità. Se si ricerca una verità universale, si deve essere disposti a sacrificare la libertà dell’uomo, perché esiste da qualche parte qualcosa di certo a cui chiunque è obbligato a dare il proprio assenso. Se invece si vuole difendere la libertà, si deve rinunciare alla sicurezza di ogni compromesso che semplifica le situazioni problematiche con risposte definitive, per accogliere la responsabilità di realizzare la promessa umana.

Hersch non ha dubbi e sceglie la valorizzazione della possibilità, in una libertà ontologica che nega ogni predeterminazione per donare all’uomo la spaesante ed entusiasmante occasione di creare se stesso e il reale. Se si sposa questo modello, diventa ovvio che non è pensabile una definizione univoca dell’essenza dell’uomo, anzi, ogni sforzo deve preservare il vuoto vitale per il soggetto, non per consentirgli di fare ciò che vuole, ma per tutelare il suo diritto di trovare una personale via di realizzazione. Questa è la naturale prosecuzione del tentativo di Kant e Jaspers di frantumare il sapere oggettivo una volta per tutte.

L’illusione della filosofia ci mette di fronte ad un’alternativa: sarò o non sarò («Non si sceglie la filosofia, […] è il problema filosofico stesso che si pone. […] L’alternativa è: […] “Sarò di fronte alle cose o cesserò di essere confondendomi in esse? Sarò o non sarò?”» – J. HERSCH, L’illusione della filosofia, cit.,, p.25.) Non si può certo dimostrare in poche pagine quale deve essere la scelta di ogni soggetto, ma si può far capire quanto sia vitale riflettere sull’alternativa qui presentata, in un tempo che invece cerca di mostrare e imporre solo la via brevis che si profila al bivio. Curiosamente il miglior testamento spirituale è Le métier de philosophe, il discorso inaugurale tenuto da Hersch in occasione della sua prima lezione all’università di Ginevra:

La filosofia chiarifica – senza ridurre – i misteri essenziali della condizione umana. […] Il filosofo ha un compito urgente da svolgere: chiarire, distinguere, delimitare, legare, descrivere, porre e riproporre le esigenze essenziali, difendere ancora e ancora i misteri essenziali dalle riduzioni menzognere. […] In un tempo come il nostro, rimane più necessaria che mai per preservare quanto meno il “vuoto” indispensabile alla pienezza della libertà (J. HERSCH, Le métier de philosophe, in Revue de Théologie et de Philosophie, Lausanne, 1957, IV, pp. 4-6 [trad. mia].)

Hersch enfatizza a più riprese che una missione del genere deve animare lo sforzo di ogni filosofo, ma al tempo stesso decide dell’esistenza di qualsiasi uomo. L’uomo è in grado di usare la forza del proprio intelletto per fare grandi cose e trovare rifugio in fortezze tanto sicure quanto alienanti. Spingendosi oltre, però, è anche capace di riscattare la dignità della propria ragione impegnando la propria libertà e mettendosi in cammino per strade tortuose. L’uomo è fatto per realizzarsi creando la propria essenza e ricordare questa promessa, anche quando battere in ritirata e accontentarsi sembrano la soluzione migliore, è un compito primario non solo per il filosofo ma per ogni essere umano degno di tale definizione.

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