Dafne, o del divenir altro

Il testo Ontologie de l’accident, originariamente pubblicato nel 2009 per Éditions Léo Scheer da Catherine Malabou, è ora disponibile anche in italiano, grazie all’edizione curata da Valeria Maggiore per Meltemi.

Il testo di Malabou è singolarmente rilevante, da un punto di vista filosofico, poiché apre direttamente allo studio della scienza dell’“accidente”. Per l’autrice, l’accidente consta dell’elemento traumatico, del risultato connaturato in cui inevitabilmente incappa il soggetto che esperisce un mutamento del proprio essere, un cambiamento essenziale. L’accidente non è in questa sede associabile alla “casualità” del senso comune, a ciò che sfugge all’indagine scientifica in quanto “non necessario”, né tantomeno al “potere di non” che caratterizzava la metafisica aristotelica.

Anzi, ciò che qui è in gioco è proprio il tentativo di una migliore comprensione dell’impossibilità, vale a dire di un concepibile «esaurimento dei possibili», cui un esperiente può trovarsi concretamente a giungere: proprio questo svuotamento darebbe origine, per mezzo della propria soppressione ontologica, a nuove ed imprevedibili forme di possibilità, a rivoluzionarie ed insospettabili modalità d’essere.

L’“accidente” a cui allora si rivolge Malabou è piuttosto l’indice di una rottura, il presagio di un passaggio al limite, una relazione problematica con un “altro da sé” pur immanente al soggetto che si evolve e si trasforma, segnalando così l’insorgere “accidentale” – poiché non sostanziale – di un’alterità ontologica difficilmente definibile, appunto in virtù della prassi dirompente secondo la quale essa si manifesta.

Ecco dunque che la “plasticità distruttrice” si contrappone, nel secondo capitolo dell’opera, all’“elasticità” circolare, la distruzione replica alla trasformazione creativa, e cioè al ritorno, all’effettivo riassorbimento morfologico. In Malabou risulta sotteso un intendimento del reale che sappia coglierne il destino dissipativo e “negativo”, ovvero la dimensione esplosiva di spesa, il limite e la consunzione cui il cambiamento ontologico naturalmente tende.

In questo senso la figura di Dafne, introdotta dall’autrice nel primo capitolo, diventa specialmente paradigmatica. Tra le tante immagini esemplificate, il mito ovidiano ha il pregio di descrivere in modo compiuto l’esito drammatico e disastroso della radicale conversione che Malabou suggerisce essere al cuore di ogni disfacimento di forma.

L’«essere di fuga» di Dafne infatti, rappresentato dall’incontro violento con le proprie incapacità, il suo trovarsi senza scampo, fa scaturire nella ninfa l’emergenza di un essere che non le appartiene ma che pur, in qualche modo, possiede e dispone. Attuando questo meccanismo, colpita da questa sventura, Dafne permette – o si permette, in senso economico – di far affiorare un ente che ha la facoltà di annullarla in quanto tale, ovvero una pianta di alloro che la “sfigura”, sopprimendo di colpo la sua femminilità, il suo essere attraente agli occhi di un dio.

Della naiade restano a questo punto rintracciabili, ma unicamente per pochi istanti, il battito del cuore, appena udibile al di sotto della corteccia, ed alcune lacrime a bagnare le foglie di quello che è ora diventato un ramo. Dafne scompare proprio dove è radicato l’alloro che l’ha soppiantata. L’istantaneità della metamorfosi si unisce qui alla storicità ed alla continuità del processo evolutivo, al divenire-altro che non inizia in un momento dato ma che da sempre si tramanda, che resta incollocabile e che decisivamente accade a partire dall’impatto con un evento traumatico, con l’evidenza di una ferita di cui rimane la vistosa cicatrice.

Implicita è quindi nel mito una doppia concezione della temporalità, così come propriamente avviene nel caso dell’invecchiamento e della rispettiva e conseguente “plasticità”, esempi e riferimenti teorici molto cari alla speculazione di Malabou. Al movimento progressivo e sempre crescente del “diventare vecchio”, dell’aumento o dell’abbassamento metabolico, cui corrisponde una perdita della “buona” plasticità, si deve aggiungere infatti l’“evenemenzialità” accidentale e catastrofica del declino in cui propriamente “precipita” il soggetto che si confronta con la propria infelice senilità, alla quale è in questo caso associata una plasticità quale principio di trasformazione immediata, esplosiva e di rottura: l’associazione di queste due visioni è funzionale al fine di comprendere e giustificare la doppia genesi ed occasione del cambiamento sostanziale.

L’intervento della patologia, del quid e dello studio del“patologico” che purtroppo e spesse volte caratterizza il crepuscolo dell’esperienza umana, quale fattore accidentale che innesca questa transizione di nature, consente in Malabou di apprezzare l’incontro così come la distanza speculativa di queste due concezioni della crescita e soprattutto della decrescita ontologica, comprensioni delle quali l’autrice ha avuto il merito di ribadire, in questo testo, la significativa pregnanza e valenza concettuale.

Dottorando in Filosofia presso le Università Ca' Foscari di Venezia e Paris I Panthéon-Sorbonne. Precedentemente laureato in Scienze Filosofiche presso l'Università degli studi di Firenze e in Filosofia presso l'università di Trento.

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