Riduzionismo vs complessità (I)

Questa ricerca intende riflettere sul modello riduzionista e sul modello sistemico-relazionale, che costituiscono i due principali modelli su cui si basano le odierne scienze empiriche e sperimentali. Per svolgere l’analisi, prenderemo spunto da due lavori, non recenti ma particolarmente significativi per l’indagine che ci proponiamo di svolgere. Tali lavori sono comparsi nel numero 1 del Volume 37 della Rivista “Epistemologia” e sono stati scritti da Francesco Bottaccioli e da Giovanni Villani.

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Vero pensiero è l’unità di pensante e pensato (III)

L’atto di coscienza come fondamento
Come dicevamo nella seconda parte del presente lavoro, nella misura in cui il pensiero poggia sulla differenza, e dunque vale come relazione tra pensiero pensante e pensiero pensato, esso si fonda sull’atto noetico del suo sapersi (che costituisce l’essenza autentica del pensiero pensante) e si esprime come procedura dianoetica che lo dispone come discorso, cioè come linguaggio.
Da un certo punto di vista, il linguaggio rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che anzi lo esprime in forme determinate. Quelle forme determinate che poggiano sulla relazione, la quale costituisce l’essenza stessa delle forme o la loro struttura.
Da un altro punto di vista, l’atto di pensiero vale come visione del noema (del contenuto di pensiero) e solo in quanto tale esso fonda la possibilità che il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente. Continue Reading

Cos’è la filosofia monista?

Pensare la storia della filosofia come un confronto fra dottrine che, fatte salve alcune differenze, possono identificarsi entro due “schieramenti” opposti, è una pratica riduttiva. Tuttavia questa semplificazione può aiutarci a riconoscere delle tendenze, dei temi che si ripropongono e restano attivi in seno ai cambiamenti culturali che la storia mette in atto. Nella storia della filosofia moderna, tra gli altri, sono riconoscibili due tronconi di pensiero in fondo inconciliabili. Da una parte coloro i quali danno per scontata l’idea per cui la realtà sia un oggetto esterno al soggetto che ne fa esperienza; dall’altra coloro i quali mettono in discussione questa scissione. I primi consegnano alla conoscenza un ruolo di “scoperta dell’altro da sé”, il riconoscimento di un’alterità con la quale venire in contatto unicamente per vie esterne. In altre parole: non c’è che una solidarietà apparente fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, le “sostanze” rimangono in definitiva scisse. I secondi, invece, in misura ogni volta diversa – più o meno radicale – considerano i due fuochi della conoscenza come sullo stesso piano, due “elementi” solo apparentemente separati. La moltitudine – anche se solo attraverso un elemento di continuità intrinseca, “l’identità del diverso” – si ricolloca interamente entro un unico (infinito) campo ontologico, facendo così collassare il senso di una distanza fra soggetto e oggetto. 

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L’impossibilità di ridurre l’oggetto in sé all’oggetto percepito (IV)

Per riprendere il discorso sulle posizioni ambigue, in ordine al tema dell’oggettività, assunte da numerosi scienziati che si occupano del tema della mente, partiamo da questo punto. Ci sembra quanto mai significativo che un altro insigne neurobiologo, Edelman, in una sua opera molto importante, dopo avere fornito un avvertimento al lettore: “Il lettore ricordi, quando sarà il caso, che comunque la triade essenziale [corpo, econicchia e cervello] è sempre nella mia mente” (Edelman, 2007, 22), scriva: “Un altro errore è contenuto nell’affermazione che le categorie sensoriali come il colore e varie altre percezioni esistono nel mondo indipendentemente dalla mente e dal linguaggio” (Ivi, 37). Per poi aggiungere, citando Quine e il suo progetto di “naturalizzare l’epistemologia”: “Il soggetto riceve “un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione […] e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare […] per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria” (Ivi, 43-44; l’opera di W.V.O. Quine, cui Edelman si riferisce, è Epistemology Naturalized). Continue Reading

Il cervello, l’organo della sopravvivenza individuale

In occasione del lancio del nuovo Call for papers dedicato a «Il corpo», ripubblichiamo l’articolo di Saverio Mariani che, a partire dal libro Percezioni del neuroscienziato Beau Lotto, mette in questione alcune caratteristiche fondamentali nel processo di “riscoperta della corporeità” e il suo rapporto con “il mondo”. L’articolo è stato pubblicato nel febbraio 2018

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Che ci sia un mondo fuori di noi sembra una cosa banale perfino da dover giustificare. Dovremmo essere, in teoria, meno certi dell’affermazione secondo cui questo mondo fuori di noi sia una realtà che conosciamo in maniera oggettiva. Come spiega, in maniera quasi didattica e penetrante, Beau Lotto in Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, la realtà che noi vediamo è parziale e finalizzata all’azione.

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Il cervello, l’organo della sopravvivenza individuale

Che ci sia un mondo fuori di noi sembra una cosa banale perfino da dover giustificare. Dovremmo essere, in teoria, meno certi dell’affermazione secondo cui questo mondo fuori di noi sia una realtà che conosciamo in maniera oggettiva. Come spiega, in maniera quasi didattica e penetrante, Beau Lotto in Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, la realtà che noi vediamo è parziale e finalizzata all’azione.

Beau Lotto (che è neuroscienziato dello University College di Londra) affronta la questione dell’oggettività della realtà da un particolare angolo di osservazione: il cervello. O meglio, le funzioni percettive del cervello che sono – in definitiva – la soglia tra ciò che è in noi e fuori di noi. Percepire, infatti, non è conoscere (come ben sapeva il Bergson di Materia e memoria), bensì è prepararsi ad agire. «Ci siamo evoluti per percepire allo scopo di sopravvivere, cosa che presuppone delle azioni da parte nostra, il bisogno di fare qualcosa», scrive Lotto (p. 69). In altre parole, la percezione è una ricezione di informazioni “dall’esterno” che si configura e struttura non per consegnarci un’immagine fedele della realtà, ma per produrre una risposta motoria adeguata allo stimolo che abbiamo elaborato. In altre parole ancora – ovvero quelle scritte nel 1896 da Henri Bergson –, la percezione, «presa nel senso in cui l’intendiamo noi, misura la nostra azione possibile sulle cose e con ciò, inversamente, l’azione possibile delle cose su di noi» (H. Bergson, Materia e memoria, trad. it. F. Sossi, Mondadori, p. 182).

Questa presa di coscienza ci mette di fronte non soltanto a una rimodulazione del concetto di realtà oggettiva/soggettiva, ma apre una prospettiva filosofica nuova. Beau Lotto nel suo testo accenna a questioni più ampie senza trattarle direttamente, rimanendo così all’interno del suo ambito più strettamente neurobiologico. Tuttavia, quando scrive che le nostre decisioni (argomento sul quale si torna lungamente nel testo, descrivendo la fallacia di un’idea come il libero arbitrio) non avvengono unicamente nel nostro cervello ma sono sempre «in relazione al nostro corpo e al mondo circostante» (p. 79), si configura un processo dinamico nel quale siamo costantemente immersi. Adattarsi è infatti gestire continuamente gli stimoli esterni e proporre risposte adeguate che ci permettano di sopravvivere. Così si è formato il nostro cervello e a partire da questo assunto nascono le nostre idee. L’evoluzione è qualcosa che non si ferma mai, così come la fluidità del processo nel quale navighiamo a vista grazie a un metodo non infallibile (ma il più congeniale per noi) come quello per tentativi ed errori: «in sostanza, vivere altro non è se non sperimentare cicli continui di tentativi ed errori. È un processo empirico» (p. 128).

La grande sacca dinamica dove viviamo è l’ambiente, il mondo fuori di noi che – oramai – non è proprio così fuori di noi come all’inizio credevamo. Tale ambiente è più precisamente per Lotto uno spazio ecologico, un’ecologia; con questo termine si indica «la relazione interattiva fra le cose e lo spazio fisico nel quale esistono» esso «coglie meglio la natura fluida, inestricabilmente connessa delle cose che vi sono contenute» (p. 93).

Sapere come lavora il nostro cervello, come detto, ci aiuta a stabilire delle gerarchie e a prendere con la dovuta cautela ogni tipo di assoluto, sia esso normativo, morale o metafisico. Il fatto che la nostra percezione ci impedisca di vedere davvero la realtà per quel che è, può apparire come una deficienza del nostro sviluppatissimo sistema gnoseologico; in verità – spiega Lotto – «è fondamentale per la nostra capacità di adattamento» (p. 93). Noi non dobbiamo conoscere, dobbiamo sopravvivere. Come scriverà sempre Bergson (che ora, grazie anche al lavoro dei neurobiologi come Lotto, torna ad acquisire una centralità nel dibattito), «la speculazione è un lusso, mentre l’azione è una necessità» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. M. Acerra, Mondadori, p. 50). Noi dobbiamo agire e, allo stesso tempo, dare significato ai fatti del mondo che – di per sé – non hanno alcun significato. L’informazione grezza, ciò che ci arriva direttamente attraverso i sensi, è senza significato. Dare un senso a queste informazioni significa classificarle, ridurle scartando ciò che non ci interessa e mantenendo intatte le informazioni di cui, invece, abbiamo necessità. E cos’è che ci aiuta a dare senso a delle informazioni grezze, ad interpretarle e a renderle qualcosa da utilizzare?

Il passato. Da un lato il passato evolutivo, la nostra storia di sopravvivenza e adattabilità, dall’altra il passato dei nostri ricordi. Ma è scorretto dire che il passato insegna, è più corretto sostenere che il passato si riscrive continuamente – nel nostro cervello. Lotto ci spiega infatti la plasticità e mobilità dei ricordi, il loro modificarsi al modificarsi di una nuova informazione che si aggiunge alla rete. Questo perché «il significato di ciascun ricordo è una rappresentazione dell’insieme, non di un elemento specifico» (p. 136), e perché gli elementi specifici sono fruibili solo se in connessione e, come in tutti i sistemi di connessione, il variare di un singolo elemento riscrive l’intera filiera in relazione.

Dunque, non solo le percezioni che abbiamo del mondo non ci danno una realtà oggettiva ma sono, a loro volta, sempre condizionate dalla plasticità della memoria e delle informazioni pregresse. Se chiamiamo questa informazione personale fatta di ricordi che si aggiunge alla percezione, «affezione», potremmo immediatamente capire le parole di Bergson in Materia e memoria quando scriveva «non vi è percezione senza affezione. […] La verità è che l’affezione non è la materia prima di cui è fatta la percezione, quanto piuttosto l’impurità che si mescola ad essa» (H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 183-184.).

Se la situazione è questa, come è possibile la filosofia?
Si tratta di una domanda lecita e quanto mai attuale. Di certo, alla luce di queste scoperte, dovremo abbandonare un certo modo di intendere la filosofia. Sicuramente dovremmo tralasciare quella filosofia che vede nell’uomo il vettore principale della natura, perché risulta sempre meno valida. Allo stesso tempo è necessario sganciarsi dai dualismi ingenui che già Bergson denunciava (non siamo né realisti né idealisti, amava ripetere il professor Bergson), poiché dividere il mondo in due sostanze opposte che comunicano tra loro vuol dire affidarsi a rappresentazioni statiche della realtà e che si fondano sullo stesso assunto: percepiamo per conoscere. Lotto e la neuroscienza ci insegnano che questo assunto non è vero e che l’unico modo per inserirsi in maniera intelligente in questo processo è essere consapevoli della nostra struttura mobile. Bisogna essere devianti, scrive il neuroscienziato. «Vedere in maniera differente – deviare – inizia con la consapevolezza, con il vedere noi stessi mentre vediamo (però non è assolutamente qui che finisce). Inizia sapendo che alcuni di quegli assunti spesso invisibili che in passato ci hanno permesso di sopravvivere potrebbero non essere più così utili. Inizia comprendendo che possono di fatto essere (o diventare) dannosi per noi (e per altri), e che se non cambieranno potrebbero imporre delle limitazioni al nostro vivere. Incarnare veramente questa idea equivale a porsi in empatia con ciò che significa essere umani, anzi, con ciò che significa essere qualunque sistema vivente percettivo» (p. 195). Significa, in buona sostanza, mettere in dubbio gli assoluti del senso comune e chiedersi sempre “perché”, di fronte a un fenomeno.
E cos’altro era la filosofia nel suo statuto originario se non una domanda puntuale che accerchiava sempre più le sicurezze racchiuse in quel castello chiamato mito?