Una storia di fantasmi

“Teleplastia. Saggio sulla psiche interrotta”, è l’ultimo lavoro di Silvia Vizzardelli, docente di Estetica e Filosofia della musica presso l’Università della Calabria. Si tratta di un testo dall’argomentazione originale e coraggiosa, un contributo atteso a lungo, che prende le mosse a partire da un interessante intervento dell’autrice risalente all’estate del 2019, tenuto a Forlì per la scuola di filosofia “Praxis” (L’atto teleplastico: le sagome del pensiero). Vizzardelli esamina il lemma “tele-”, deputato a definire l’essenza dell’“intervallo”: si tratta infatti della considerazione di quella che l’autrice definisce in questo libro come “actio in distans, ovvero la facoltà che un atto detiene di avere un’influenza ad un’apprezzabile “distanza” rispetto al soggetto che lo esegue. Ma l’aspetto cruciale di questa visione è che il soggetto mantiene una relazione drammaticamente “senza rapporto” con l’effetto stesso dell’atto causativo, come se questo soggetto stesso giungesse infine a negarne la paternità.

Silvia Vizzardelli, Teleplastia. Saggio sulla psiche interrotta, Orthotes, 2021

Facendo perno su quella che Einstein battezzò a suo tempo come “spooky action”, vale a dire “atto spettrale”, misterioso (elaborando così un pensiero che consentisse per la sua struttura di concepire la sussistenza di azioni che avessero effetti istantanei ma a ragguardevole distanza, nella dinamica dell’entanglement quantistico), Vizzardelli tenta di sovvertire il paradigma di causalità lineare e transitiva della meccanica e della filosofia classica (ma anche della psicologia e psicanalisi). La meccanica classica, infatti, riconosce lo svolgimento di un esercizio causale unicamente all’azione ed alla passione di due “corpi” contigui, prossimi e adiacenti. A questa logica causale congiuntiva, correlativa e lineare – in breve “humeana”, saremmo portati a concludere – l’autrice contrappone allora l’esistenza di pratiche “magiche”, che sono proprio quelle che si collocano specificamente oltre la “soglia” delle nostre capacità fisiche di soggetti agenti, riconoscendo così la traccia di un effetto del quale siamo, in un qualche modo, responsabili, ma che non è (o non è più) “innervato”, dice propriamente l’autrice, ovvero posto all’interno del novero delle nostre pur ampie possibilità di azione e corrispondente modifica del mondo circostante.

Alla pratica “magica” si riconosce perciò un fondamentale potere di interruzione, di interpolazione causale, di spaccatura o spacchettamento di unioni di organismi comunicanti, e, coerentemente con questo, l’emergenza che consente il rinnovato apprezzamento di un universo di rapporti di correlazione più complessi, un reticolo composto di linee “parallele” di “causalità”, ovvero di “effettività” non meglio definite a causa della stringente povertà del nostro vocabolario, ancora profondamente ancorato ad un lessico di retaggio empirista (in senso classico).

La magia è infatti la dottrina della rinuncia programmatica del possesso gnoseologico, ossia del “sorvolo” del quale aveva parlato Merleau-Ponty nei suoi corsi al Collège de France, rifiuto che si dirige verso una teoria che promulga viceversa il distacco e l’apprezzamento della fluttuazione onirica del senso via via costituentesi: il soggetto che opera magicamente, come uno esperto stregone, è infatti un maestro versato nell’arte occulta, un mediatore che comunica tra i due mondi, unendoli e dividendoli ad un tempo, vale a dire quello visibile del tratto e quello invisibile che lo disegna, come un aruspice che sa scrutare e manipolare le leggi e le catene inferenziali che lo circondano e comandano il suo cosmo, un soggetto che è perciò in grado di “incorporare” nozioni, azioni, stilemi causali, di avere cioè un’influenza mutuale su di loro, ma che non può pertanto “assimilare”, fare proprie queste risorse epistemiche una volta per tutte, vale a dire infine sottrarle al gioco continuo e “forsennato” della distanza, al moto ondoso e rifrangente della “doppia scrittura”, per riprendere un lessico caro a Lévinas o a Derrida e che Vizzardelli ha il merito di fare suo in questo testo.

Ecco che allora causa ed effetto arrivano a somigliarsi, secondo queste raffigurazioni: essi si rispecchiano, si rispondono pur senza intraprendere una diretta interazione, secondo una concordanza che, a ben vedere, non è (più) riconducibile all’azione diretta ed esclusiva di “una” causa, secondo una dinamica proiettiva di significato transeunte. Ciò si esemplifica nel mito di Orfeo ed Euridice riproposto da Rilke e messo in scena dal regista Romeo Castellucci, che Vizzardelli riprende nella sua Introduzione (p. 19). Questa rispondenza si compie quindi nel riconoscimento di due polarità ineliminabili, ovvero nel racconto di una storia che può essere unicamente scritta “a più mani” e da più autori o protagonisti che agiscono (e non patiscono) insieme, secondo una narrazione intricata che svincola finalmente Euridice dall’immaginazione erotica, univoca, di Orfeo cantore: ella infatti, nel poema e nella trasposizione scenica del 2014, “dimentica e dal mondo dimenticata”, non riconosce sorprendentemente la voce dell’amato che la (ri)chiama, ma si riassorbe eclissandosi dolcemente nel torpore monocorde e materico del regno al quale ora e per sempre appartiene, che solo, nell’oscurità, incorpora la sua “scrittura”, dandole traccia.

Nell’arco di quattro capitoli davvero stimolanti (“Uno. Teleplastia”; “Due. Un apparato a due mani”; “Tre. Interruzione e separatezza”; “Quattro. “Non sviluppare, non pontificare”), che seducono e sfidano i limiti del nostro pensare “pontificante”, al quale siamo tradizionalmente e forse colpevolmente più avvezzi, la prospettiva teorica di Silvia Vizzardelli – con quella di altri autori, come Blanchot e su tutti Lacan, quest’ultimo trattato più estesamente nel terzo capitolo – riesce efficacemente a far parlare quella voce del silenzio che cancella eppur unisce il fluire incessante delle nostre parole, che si scoprono, così facendo, scollegate e “magicamente” riunite. Secondo i dettami della “doppia grafia” o scrittura “a distanza” che si imprime su curiose e difformi superfici grafiche tra loro lontanissime, l’autrice riesce infatti a catturare con precisione, appunto “inscrivendoli”, fenomeni “magici” e teleplastici, come l’inconscio psichico che, come brusca ed inspiegabile interruzione dell’attività cosciente, rimodella le restrizioni del modo di intendere il flusso delle nostre azioni e percezioni sensibili. Questo testo merita senz’altro di essere studiato con attenzione, al fine di fare proprio, tra le altre cose, il punto di vista che l’autrice promuove per mettere in pratica una rilettura e ricomprensione di temi classici della storia del pensiero occidentale.

 

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Fisica, physìs e filosofia

Carlo Rovelli
Sette brevi lezioni di fisica
Adelphi, 2014, pp. 88

 

Perché un sito di filosofia dovrebbe parlare di un testo nel quale un famoso fisico, Carlo Rovelli, ci racconta in modo breve, conciso e divulgativo, cosa è accaduto nella fisica del XIX e XX secolo? La risposta è semplice: la fisica e la filosofia sono sempre andati a braccetto, hanno sempre vissuto vicino, fino a coincidere in alcuni momenti. Anzi, la filosofia si è presentata – nella madre patria Grecia – prima come una scienza della Physìs e poi come il tentativo di oltrepassare quella scienza, attraverso la meta-fisica.
Fin qui siamo stati scolastici, quasi liceali.

Anche il libricino di Rovelli ha il pregio di essere scolastico, perché ha la capacità di presentare cose difficili per chi non è avvezzo alla fisica, in modo chiaro e fruibile attraverso diversi piani di profondità: si può insomma leggere lo stesso capitolo con concentrazione diversa.

Le lezioni passano da La più bella delle teorie (ovvero la relatività di Einstein), per presentare gli sviluppi di essa, l’altra grande teoria della fisica del XX secolo (la meccanica quantistica), spiegando lo stupendo paradosso secondo il quale la relatività e la meccanica quantistica siano opposte l’una all’altra, eppure convivono in modo pacifico spiegando il mondo e l’universo in modo complementare. Ci spiegano (lezione terza) la struttura del cosmo, che durante la storia del pensiero si è sempre di più allargato, fino ad essere concepito come davvero infinito e pieno di altre galassie molto più grandi delle nostre. Tutto ciò comporta una rimodulazione delle nostre tesi sul materia, spazio e tempo, che vengono evidentemente ridefinite. Lo studio, in particolare, della probabilità e dei buchi neri (lezione quinta) pongono ai fisici delle questioni relative al tempo che potrebbero portare ad affermare la non-esistenza del tempo per come lo intendiamo noi. Un’idea che sembra folle e controintuitiva, appena accennata da qualche filosofo all’inizio del Novecento (penso a Bergson) che, non a caso, era fortemente legato alle vicende della fisica e dell’epistemologia del tempo. Scrive Rovelli: «fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l’idea di un presente comune a tutto l’universo sia un’illusione, e lo “scorrere” universale del tempo sia una generalizzazione che non funziona» ((p. 65)).

Ma il capitolo più interessante è certamente l’ultimo, intitolato “Noi”. Si tratta di una piccola riflessione di Rovelli sul ruolo che l’uomo ha e continua ad avere in questo universo fisico. Si tratta di tornare dal macrocosmo universale al microcosmo dell’uomo che si pone in costante rapporto con la natura e l’universo. Una natura ed un cosmo, dice Rovelli, che hanno regole ben precise a cui rispondono, e «non c’è nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa che rafforzare questa osservazione» ((p. 78)). Nonostante ciò Rovelli ha il pregio di non voler dare ricette eterne, sa bene che la scienza cammina su delle palafitte, come diceva Popper, e non ha né potere predittivo né taumaturgico .
Ma si chiede anche come possiamo far convivere il nostro sentimento di libertà nell’azione e nella decisione, con una natura che se ne frega delle nostre decisioni? A questa domanda Rovelli risponde attraverso la «lucidità meravigliosa» ((p. 79)) di Baruch Spinoza. Dice l’autore: «sarebbe assurdo chiedersi se “io” posso fare qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVII secolo il filosofo olandese Baruch Spinoza, sono la stessa cosa. Non ci sono “io” e “i neuroni del mio cervello”. Si tratta della stessa cosa» ((Ivi.)). E quindi non esisto io e (separatamente da me) la natura. Io sono parte integrante della natura; una parte che pensa e che ha una capacità elaborativa straordinaria nel cervello che non riesco (sempre) a calcolare e prevedere. Ma è bene ricordare che «quanto è specificatamente umano non rappresenta la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura» ((p. 81)).

Su quest’inno al Tutto, potremmo dire, si chiude il piccolo libro di Rovelli che esplora le più grandi teorie fisiche dei due secoli passati, ma in fondo si tiene ancorato a quell’intuizione antica secondo la quale l’uomo non è nient’altro che una parte minuscola della natura, capace di guardare in faccia, con meraviglia, ciò che non sa.

L’enigma del Tempo

All’interno della Festa di Scienza e Filosofia , organizzata a Foligno (PG) dal Laboratorio di Scienze Sperimentali, sono intervenuti anche alcuni filosofi che, spesso con un taglio più scientifico, hanno trattato temi interessanti e stimolanti. Il caso del professor Giacomo Marramao è uno di questi. Infatti nella sua lectio il professor Marramao ha analizzato il concetto di tempo, fra fisica e filosofia, spiegando rapidamente la concezione del tempo all’interno della teoria della Relatività di Einstein, e facendo un rapido excursus sull’idea di tempo nella filosofia occidentale, per poi dare la propria idea di tempo.

Nella teoria della relatività non mi inoltro, anche per una riconosciuta incapacità personale, ma provo a delineare le due concezioni principali – secondo Marramao – nella filosofia greca rispetto al tempo: quella aristotelica e quella platonica.

Marramao analizza così le due posizioni:

  • Aristotele, nel libro IV della Fisica, descrive il tempo come numero del movimento secondo il prima e il poi. E Marramao interpreta questo passo come la necessità che ci sia “qualcuno”, o “qualcosa” che misuri il tempo per farlo essere. Il tempo, quindi, si inserisce sempre all’interno delle due linee di non-essere (il passato ed il futuro), e la psyché, è quel “qualcosa” che può numerare il tempo. Che può misurarlo. Quindi il tempo, in Aristotele (come in Einstein) rimane appeso alle sfere della fisica e della psicologia.
  • Platone, nel Timeo, invece mette in relazione, secondo la sua dottrina, l’Eterno ed il Tempo. Dove il tempo altro non è che la scansione in fotogrammi dell’eternità. L’Eterno platonico c’è già tutto, ma va reso chiaro mediante una scansione temporale. Potremmo dire che l’Eterno si fa tempo per essere reale, per essere appreso. Quindi l’Eterno diviene Tempo. Questa è l’interpretazione che ne dà il professor Marramao.

Queste due posizioni, come in molte altre cose, sono i due cardini attorno al quale la filosofia occidentale ha generato il proprio scorrere filosofico durante i secoli. Ma ora veniamo alla posizione espressa dal professore. Intanto c’è da chiarire il concetto di contingenza, che Marramo delinea come una realtà chiara, dove ogni evento si basa su di un incontro causale degli eventi, ma non deterministico. Perché i processi sono caratterizzati da un alto grado di improbabilità. In buona sostanza il professore descrive la realtà non come il frutto di una necessità causale, ma come l’incontro improbabile degli eventi. Nel caso potessimo riavvolgere indietro il nastro degli eventi e poi rimandarlo avanti non avremmo lo stesso film. Perché non vi è alcuna necessità all’interno della realtà. Ed in questa ottica il professor Marramao intende costruire (parole sue) una ontologia della contingenza: “in opposizione, ad esempio, ad una ontologia della necessità, come quella di Severino”.

Mettendosi in opposizione all’ontologia di Severino capiamo già cosa possa intendere il professor Marramao, e che ruolo giochi il tempo. Tempo che è visto sempre insieme alla categoria dello spazio, della spazializzazione. Il tempo è una dimensione – legata allo spazio – nel quale l’uomo si muove, deve prendere scelte ed essere responsabile delle proprie azioni. Obietterei al professore non tanto la costruzione di una nuova ontologia della contingenza, che potrebbe essere il rifacimento di teorie dell’essere già viste, ma più che altro il fatto che anche in una realtà necessaria la responsabilità dell’uomo è salvaguardata. Basta leggere Spinoza, guarda caso. E poi se il tempo sia una dimensione in cui l’uomo può giocarsi la sua libertà, come diceva Einstein, oppure sia una finta dimensione finita, e quindi un’eternità (due serpenti che sbattono la testa, direbbe Nietzsche), è altro. La politica, e con essa la responsabilità umana, non finisce con una visione deterministica ed eterna della realtà.

Questo mi è sembrato il cruccio del professore, che rispondendo alle domande finali, ha messo l’accento sulla necessità di temporalizzare ogni cosa, di renderla manipolabile. Per sostenere ciò, a mio avviso, c’è bisogno di costruire delle fondamenta solide, che purtroppo in questa lectio il professore ha solo accennato. Peccato.